I limiti della scrittura

La luce penetrava dalle opache finestre, attraverso le quali non si potevano distinguere che ombre indistinte del mondo, che circondava quella che ormai era la sua fortezza. Aveva imparato ad apprezzare i piccoli momenti nei quali il percorso del sole era tale che le frecce impalpabili attraversavano il cammino nervoso della sua esistenza. La luce filtrata, così puntuale e tenue, era carica di quella rassicurante morbidezza, in grado di accarezzare gli oggetti senza colpirli, di accentuare i dettagli senza illustrare i difetti. Era quello il suo momento preferito della giornata, dopo il tramonto, certo.
Al calar del sole la luce acquistava, indipendente, tutte quelle qualità, senza dover ricorrere al filtro della superficie vetrosa, lucida o opaca, o a quello della memoria, sempre opaca. Era quella la luce perfetta per scrivere, la luce perfetta per leggere, indubbiamente la luce perfetta per pensare.
E la memoria vagava, indistintamente confusa, quasi sedata tra i fumi di quella spenta brillantezza.
E il pensiero agiva, anch’esso intorpidito nel sonno della ragione, il quale risveglia però le fantasticherie più audaci ed accende le parole più eleganti.
E la penna guizzava, seguendo fedele l’andamento dei pensieri con il suo tratto, ora chiaro, ora sconnesso, senza soluzione di continuità. Era certo che il ritmo altezzosamente irregolare dell’oggetto fungesse da ispirazione, laddove la mente si riposasse.
Era difficile dire cosa scrivesse, poiché non ne era certo nemmeno lui, la sola certezza era la volontà di proseguire, di non frenare il flusso d’inchiostro erogato da quello strumento affilato e sinuoso, incisivo, eppure così scorrevole.
Volente o nolente, avrebbe assistito alla disfatta dei suoi pensieri indistinti in favore di una fredda ma accogliente certezza d’inchiostro. Essa avrebbe fissato la molteplicità quantistica che caratterizzava la complessità della sua mente, determinando, con chirurgica e programmata crudeltà, la scelta del vocabolo che, pur approssimandosi alla riuscita dell’impresa, non sarebbe mai stato in grado di restituire l’infinità dell’animo.

Giacomo Notaro