Sogni d’Argento

Figure che si allungano. Alberi che diventano palazzi.
Sfocatura perenne. Dissolvenza.
Così si svegliò Jade in cima alle scale di quel seminterrato. Nessun ricordo chiaro, nessuna oscura reminiscenza, solo un barlume sbiadito.
Insomma non ricordava un accidente, a dirla tutta.
Non che ricordare fosse particolarmente utile in quella bizzarra allucinazione che stava di fronte alle inebetite pupille.
Doveva trovarsi nell’odiosa città. Preso dal pensiero di essere ancora in quell’ammasso fetido di rocce artificiali guardò di nuovo in quell’angolo. Rovesciato sul pavimento ambrato vi era un liquido molto denso, di colore argento. Lo strano gioco di luce faceva sì che quella massa informe, colata dal condotto e distillata al suolo, risultasse ora brillante, ora opaca. Jade si avvicinò, ed essa si mosse. Non come corpo vivo ma come riflesso e luce impalpabile.
Ora iniziava a ricordare.
La giornata di Jade era scandita da granitiche certezze d’abitudine, un rituale profano di abilità organizzativa. Sulle sue mosse il quartiere del fondo più infimo dell’odiosa città sincronizzava ogni attività. Il fornaio apriva con il risuonare della sua sveglia ed il locale notturno sgombrava i ciondolanti clienti allo spegnimento del lume sul suo comodino. I ritmi di quell’appendice in putrefazione del malato corpo cittadino erano scanditi da un rintocco infallibile. Uno sfregio alla vita, un’offesa all’avventura ma un magnifico orologio. Meridiana infallibile di sogni ed incubi leggendari di una comunità corrotta dall’acido d’una chimica sotterranea.
Jade stava appunto portando con i suoi passi il segno d’apertura delle attività commerciali. Si trovò davanti un incredibile affollamento di persone. Inusuale cambiamento, inconcepibile variazione sul tema stabilito da altri e da lui scandito con metronomica cadenza.
La marmaglia si girò verso Jade con la medesima curiosità e paura con la quale si era rivolta alla vetrina infranta del negozio di Wal.
Si alzò improvvisamente un vento gelido, una bufera di nebbie tossiche. Il fumo fuoriusciva dalla vetrina e la breccia era ormai diventata una cascata di effluvi. Le figure ora si aprivano, ora si chiudevano, in una respirazione volta all’osservazione di quale meraviglia sarebbe stata partorita da quei denti aguzzi in vetro temperato. Jade no.
La sua avversione agli imprevisti non ammetteva deroghe. Voltò le spalle alle esplosioni ed andò con passo svelto verso la sua prossima tappa, il cuore non avrebbe saltato un battito.
L’odiosa era deserta, ora le esplosioni risuonavano lontane e le urla attutite giungevano come da un’altra vita.
Jade si ritrovò nuovamente catapultato nello scantinato, confuso di fronte alla stessa pozza. Una certezza imprevista era accaduta, il suo pessimo carattere l’aveva salvato, ma a quale prezzo non era dato sapere. Si avvicinò ulteriormente alla testimonianza della vittoria dell’abitudine sulla curiosità, della pedanteria sul senso comune.
Il lago d’argento ora circondava una foresta di conifere, alberi oblunghi si stagliavano come colonne doriche all’ingresso di un mausoleo naturale.
Jade si punse sul tappeto d’aghi, era ora a piedi nudi. Aveva camminato scalzo nel tempo. Scantinati e foreste condividono la medesima intimità, la stessa memoria di fatti accaduti e dimenticati, di orribili tragedie riemerse da tubature esplose, di vetrine infrante, come abitudini secolari.
Conifere ai piedi di un lago d’argento.

Giacomo Notaro